La Biennale di Venezia nella sua 58° edizione
La Laguna torna al centro dell’arte contemporanea mondiale con l’apertura della 58° edizione della Biennale di Venezia, rendendola al contempo un museo d’arte a cielo aperto. Il Padiglione Centrale della Biennale situato ai Giardini accoglie il visitatore con la coreografia “Thinking Head” ideata dall’artista Lara Favaretto (Treviso, 1973), che avvolge l’edificio in una nuvola di fumo che talvolta lo fa sparire.
Da qui inizia il percorso dell’edizione curata da Ralph Rugoff che le ha conferito il titolo “You may live in interesting times”, in origine un proverbio cinese utilizzato contro i nemici in tempi di conflitti. Tuttavia, Paolo Baratta, il Presidente della Biennale di Venezia, sottolinea che questa “maledizione” nel contesto della Biennale intende essere perlopiù un invito agli artisti di mettere in discussione le categorie di pensieri già esistenti per offrire allo spettatore una nuova lettura di oggetti e immagini, gesti e situazioni. E il curatore conferma che “un’arte simile nasce dalla propensione di osservare la realtà da più punti di vista essendo aperta a considerare anche nozioni apparentemente contraddittorie e incompatibili tra loro” in un tentativo di opporsi alla semplificazione delle forme e dei contenuti. Infatti, alla Biennale si respira un’aria che risente delle implicazioni del nostro tempo: affiora la tematica della migrazione dei popoli, spesso si allude al mare sia per avvertire del suo ineluttabile inquinamento, sia per segnalare delle imbarcazioni di rifugiati o per indicare le ripercussioni devastanti causate dal suo crescente livello, preoccupazioni che agitano il mondo odierno.
Relitto peschereccio installato da Christoph Buechel
Un memoriale in questo senso è il relitto del peschereccio naufragato nel Canale di Sicilia nel 2015, esposto all’Arsenale Nord che diventa simbolo della strage di migranti avvenuta nel 2015 con 700 esseri umani a bordo. L’istallazione che smuove le coscienze, è realizzata dall’artista svizzero Christoph Buechel (Basilea, 1966) in stretta collaborazione con le amministrazioni. Quest’anno il mare appare come argomento nodale e dominante alla Biennale, anche e non in ultimo quando omaggia la città di Venezia che ospita la manifestazione, unica per la sua bellezza ma vulnerabile per l’esposizione ubiqua all’acqua. La questione emerge, quando per esempio al Padiglione francese l’artista Laure Prouvost (Croix, 1978) suggerisce un padiglione liquido che riflette sulla nostra provenienza e su dove vogliamo andare, in un movimento fluido e globalizzato in cui si mescolano realtà altrimenti distanti. In effetti, nel Padiglione Centrale convivono posizioni e affermazioni contrastanti. In prossimità dell’ingresso del Padiglione l’artista greco Andreas Lolis (*1970) ha istallato tre sacchi di immondizia che alludono alle indomabili montagne di rifiuti che diventano monumenti alla caducità, alla trascuratezza del nostro tempo così come alla società dell’usa-e-getta. Mentre dall’altra parte si trova l’ardita ragnatela dell’artista argentino Tomàs Saraceno (San Miguel de Tucumán, 1973) che oltre all’astrofisica, ingegneria e biologia, talvolta si ispira all’aracnologia, affidandosi spesso e volentieri all’aiuto di ragni, suoi collaboratori prediletti con cui tesse architetture audaci ma delicate allo stesso tempo. Risalta anche il robot Kuka dei due artisti cinesi Sun Yuan (*1972) e Peng Yu (*1974), il quale, con uno sforzo da Sisifo, tenta di pulire il sangue strabordante sul pavimento del padiglione, senza riuscirne. Rinchiuso in una teca gigante, il robot esegue movimenti talvolta lenti altre volte più veloci e violenti come una bestia inferocita, turbando la percezione del pubblico.
Sun Yuan e Peng Yu Robot Kuka Cant Help Myself
Più avanti il visitatore si trova faccia a faccia con un muro sbrecciato e con filo spinato che si riferisce al muro famigerato della città di Juarez, forse la più sanguinaria del Messico, installato da Teresa Margolles (Culiacan, 1963). Sangue, muri, inquinamento, le maree di disperazione trovano anche un altro approdo alla Biennale di Ralph Rugoff, quando si manifestano come impegno di trovare soluzioni alle problematiche attuali e soprattutto quando gli artisti riescono ad offrire prospettive alternative che possano dare stimoli per un futuro costruttivo. Su questa scia, fuori dalla curatela della Biennale, spicca l’opera di Lorenzo Quinn (Roma, 1966) che già alla scorsa edizione aveva istallato due mani a sostegno di un palazzo vicino a Ca d’Oro sul Canal Grande.
Lorenzo Quinn Building Bridges
Stavolta, in sintonia con l’approccio propositivo al fare artistico di questa Biennale, Quinn ha realizzato 6 coppie di mani monumentali che si innalzano toccandosi, intrecciandosi, giungendosi tra loro creando dei ponti che uniscono i due versanti dell’Arsenale, lasciando la possibilità di passarci sotto con la barca. Infatti, “Building Bridges" è il titolo di quest’opera urbana che s’inserisce armonicamente nel tessuto di Venezia, città di ponti e che simboleggia i sei valori universali dell’uomo quali amicizia, saggezza, aiuto, fede, speranza e amore. Così l’opera di Quinn che è stata presentata con l’accompagnamento musicale di Andrea Bocelli e con l’intervento del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, appare paradigmatica per la Biennale - anche se esiste indipendentemente da essa. La Biennale di Ralph Rugoff si articola tra il Padiglione Centrale ai Giardini e l’Arsenale. Seguendo Rugoff, anche se viviamo tempi difficili e complessi in termini sociali e esistenziali, li possiamo tuttavia contemplare da un punto di vista costruttivo e positivo ideando possibilità diverse. Queste le prerogative base per la Biennale alla quale sono stati invitati 79 artisti da tutto il mondo. Gli artisti esposti al Padiglione Centrale si cimentano nelle più disparate tecniche tra cui pittura, fotografia, istallazioni e video. Eppure Rugoff ha voluto dare più spazio alla pittura e alla fotografia perché troppi video ad una manifestazione come la Biennale impegnano una quantità di tempo che eccede la disponibilità dei visitatori o degli addetti ai lavori.
Nicole Eisenmann
Tra le opere di pittura al Padiglione Centrale spiccano i due dipinti di Nicole Eisenmann (Verdun, 1965) che richiamano pitture surrealiste presentando giustapposizioni inedite dalla natura onirica. In uno dei due quadri esposti è raffigurata una barca - che porta come un filo rosso attraverso tutta l’esposizione - fatta però dalla mandibola scheletrica di un dinosauro nella quale siedono tre figure. La prima ha le sembianze di un moderno Pan che suona il flauto, mentre quelle posteriori tengono con fatica la vela decorata da una corona. La barca galleggia su un torrente verde contornato da alberi spogli, ed è diretta inevitabilmente verso il vicino precipizio davanti ad un cielo nero plumbeo.
Julie Mehretu Under the lowest
Un’altra pittrice che emerge al Padiglione, è Julie Mehretu (Adis Abeba, Etiopia 1970) che traduce suoni e immagini di video in una sua pittura personale ed intima. Nella serie “Under the lowest” parte da immagini estrapolate da grandi eventi mediatici, avvenimenti di forte impatto emotivo, per attenuarne i colori, ai quali aggiunge la sua scrittura di fantasia, segni, bandierine colorate, ritagli di carta generando delle composizioni come in una jam session.
Martine Gutierrez
Immagini ricche di tanti elementi ispirati a divinità azteche sono l’essenza delle fotografie di Martine Gutierrez (Berkeley, USA, 1989). La serie “Demons” raffigura la giovane artista medesima nei panni di Tlazolteotl, la dea della lussuria, o Xochiquetzal, la dea dei fiori, della fertilità e giochi, o di Chin, divinità maschile associata all’omosessualità, adornata di decori che richiamano epoche precoloniali e arcaiche, tuttavia trasponendo le rappresentazioni ai giorni nostri in cui le riviste di moda patinate trascendono dal genere o da una precisa collocazione spazio- temporale. Invece, l’opera di Mari Katayama (Saitama, Giappone 1987) appare l’estensione della sua stessa vita, essendo nata con una malformazione congenita alle gambe che ferma la crescita delle arti inferiori e che ha provocato il difetto della sua mano sinistra come se fosse una chela di granchio, malattia rara che la induce all’età di 9 anni a farsi amputare entrambi le tibie. Già prima di intraprendere la via dell’artista, Katayama realizzava opere di ricami, cuciva oggetti decorati con pizzi, cristalli e capelli. Successivamente, Katayama comincia ad usare il proprio corpo come una scultura vivente, a trasformare il suo dramma personale nel medium vincente del suo lavoro artistico. Disegna le proprie protesi come fossero tatuaggi, viene invitata a sfilare in passerella, crea gambe di stoffa imbottite per mettersi le scarpe con il tacco. Nella mostra presenta diversi suoi lavori che consistono in fotografie, autoritratti scattati nella sua stanza, altrimenti all’aperto con o senza protesi che ammiccano tutti alla sensualità del suo corpo “interrotto”. La femminilità seducente che affiora nel suo lavoro si contrappone a oggetti feticcio che sono le sue protesi e parti del corpo mutilate, paradosso che si scioglie nella bellezza dell’opera qui esibita “Dolls and bones”. Quasi all’uscita del Padiglione ci si trova davanti ad un cancello automatico in ferro che, compiendo continuamente un’apertura a 180°, sbatte sull’estremità in cui è fissato e sull’altra facendo sgretolare il muro e causando la caduta di molti frammenti di calcinacci. L’opera “Untitled” dell’artista Shipta Gupta (Mumbai, India 1976) diventa metafora per le delimitazioni, per i muri brutali che separano e le frontiere invalicabili che forse qui vengono intaccate per l’incessante martellamento. Spostandosi all’altra sezione ubicata all’Arsenale si rincontrano gli stessi artisti del Padiglione Centrale dei Giardini ma stavolta con opere differenti perché Rugoff ha voluto “dare loro la possibilità di mostrare diversi aspetti della loro pratica, (…)”. Il curatore è sempre alla ricerca di “artisti che praticano la multi- dimensionalità, che indagano emozioni, idee e sentimenti contraddittori, e il cui lavoro veicola in qualche maniera la complessità della società umana”. Fuori dal percorso tracciato e allestito dagli artisti scelti da Rugoff, ci si avventura tra i Padiglioni Nazionali dei Giardini, quelli collocati all’Arsenale e altri ancora sparsi per i meandri delle calli veneziane, tra palazzi nobili o chiese sconsacrate. Numerose le visioni, gli stimoli e impressioni di questa edizione che volta le spalle alla cosiddetta “arte politica” (…) “perché tenta di promuovere un solo messaggio, senza mai lasciare spazio a domande e interrogativi” o a posizioni discordanti, cosa che invece l’arte dovrebbe garantire. Proprio questa volontà di permettere la coabitazione di aspetti ed ambiti divergenti trapela dal Padiglione Italia, curato da Milovan Farronato. Il curatore e critico d’arte, attuale direttore del Fiorucci Art Trust, ha fatto realizzare un labirinto che suddivide l’intero spazio del vasto Padiglione italiano situato all’Arsenale tramite pareti divisorie o con aperture inattese, tendoni blu, porte e specchi che amplificano o comprendono lo spettatore nel progetto. Per Farronato il labirinto sostituisce la funzione del piedistallo. Le opere naturalmente non vengono posizionate sopra dei piedistalli, invece vengono allestite all’interno del labirinto perché in tal modo possono essere osservate da più punti di vista. Entrando nel Padiglione, ci si trova dinanzi a due portoni, due possibili ingressi di cui il visitatore deve sceglierne uno per accedere al labirinto in cui i due percorsi alternativi ad un certo punto si riconnettono. Lungo il tracciato del Padiglione si dispongono le opere degli artisti Enrico David (Ancona, 1966), Liliana Moro (Milano, 1961) e di Chiara Fumai scomparsa precocemente all’età di 39 anni nel 2017. Si osservano tavolini e sedie posizionati sotto grandi ombrelloni, un presepe, e si sente il brano “Bella Ciao” da un megafono da una parete lontana di Liliana Moro che riecheggia in tutto lo spazio. Invece, il ritmo della mostra è scandito dal murales- testamento “This Last Line cannot be translated”, realizzato da Chiara Fumai. Simboli, tracce, mappe segrete e frecce corrono lungo le pareti indicando parole chiave come magia, potere, conoscenza e si intrecciano con la sua voce registrata che legge un testo gnostico del III secolo d. C. o con il ritratto criptico dedicato alla medium ottocentesca Madame Blavatsky. In questo senso, il labirinto del Padiglione Italia diventa una metafora per la complessità della convivenza delle cose mostrando la possibilità di una “coesistenza in modo cordiale”.
Padiglione Italia Chiara Fumai
La complessità della società e la stratificazione della contemporaneità costituiscono i pilastri di questa Biennale, appaiono ogniqualvolta attraverso le posizioni artistiche che si incontrano al Padiglione Centrale o passeggiando per le grandi aree ex industriali all’Arsenale e naturalmente osservando le proposte dei 90 padiglioni nazionali. Il visitatore può farsi una panoramica del mondo odierno immedesimandosi nelle opere di questi artisti intenzionati a indurre ad una riflessione che dovrebbe portare ad un’azione da parte del pubblico. Al Padiglione che in maniera più convincente rappresenta la tematica della rispettiva Biennale viene assegnato il Leone d’Oro come riconoscimento da una giuria incaricata dal presidente della Biennale. Il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia per il mondo dell’arte forse ha un valore paragonabile a quello degli Oscar per il mondo del cinema. Specialmente l’assegnazione del miglior padiglione come partecipazione nazionale conferisce ampio credito sia alla curatela che agli artisti coinvolti. Quest’anno è stato assegnato al Padiglione della Lituania per la performance “Sun & Sea (Marina)” di un collettivo di cui fanno parte la regista Rugile Barzdziukaite, la sceneggiatrice Vaiva Grainyté e la compositrice Lina Lapelyte. La giovane curatrice del padiglione è italiana, Lucia Pietroiusti, già curatrice alla Serpentine Gallery di Londra e figlia dell’artista-performer Cesare Pietroiusti e dell’acclamata curatrice Carolyne Christov- Bakargiev. Pietroiusti ha fatto stipare di sabbia un magazzino dismesso ai margini di un porto militare, creando una spiaggia - con l’aiuto di lampade uv, caloriferi, giocattoli e numerose comparse in costume da bagno. Su questa spiaggia si collocano persone che prendono il sole o svolgono attività balneari, e sopratutto persone stese sui teli da mare che canticchiano sovra pensiero futili filastrocche da un lato e altri che intonano canti che biasimano i rifiuti che galleggiano in mare o che lamentano la distruzione delle barriere coralline. La mise-en-scene brechtiana può essere osservata dall’alto, da una galleria che corre tutto intorno, affascinando gli spettatori e lasciandoli attoniti al contempo. L’uso originale dello spazio espositivo trasformato in una spiaggia finta con la luce ultravioletta e “l’impegno attivo del Padiglione nei confronti della città di Venezia e dei suoi abitanti” si è meritato l’assegnazione del Premio ma vuole anche essere “una critica del tempo libero” e una riflessione sulla contemporaneità e dei suoi risvolti.
Leone d'Oro Padiglione Lituania
E così si rilancia l’ancora per approdare al molo dopo questo viaggio lungo le vie d’acqua della Laguna, viaggio che ci ha permesso di cogliere uno sguardo sulla contemporaneità vista con gli occhi degli artisti, antenne sensibili, in un luogo del tutto atemporale che non perde il fascino del suo passato, apparendo sempre attuale.
http://adrenalinaproject.com/news/dettaglio/1111/la-biennale-di-venezia-nella-sua-58-edizione